Pianta dai mille e uno utilizzi in un passato troppo presto dimenticato, l’albero del carrubo, originario delle zone orientali del Mediterraneo, cresce spontaneo e maestoso nell’ambiente naturale della macchia più arida. Il termine ‘carrubo’ deriva dall’arabo kharrūb, a sua volta dall’ebraico kharuv, in greco, keràtion, in latino Ceratònia (nome scientifico Ceratònia siliqua). Il frutto è denominato ‘carruba’.
La voce dialettale salentina Còrnula designa albero e frutto, ed è associata proprio alla forma di quest’ultimo: un lungo baccello (10-15 cm), che ricorda un piccolo corno (in latino còrnulum). In questo senso è ipotizzabile che il termine nasca come neutro plurale di còrnulum, appunto còrnula.
La fioritura del carrubo avviene tra settembre e novembre. I frutti maturano nel mese di agosto dell’anno successivo: di colore scuro e di consistenza quasi coriacea, al loro interno la polpa, morbida e zuccherina, si accompagna a semi di forma lenticolare, scuri, duri e… preziosi: i ‘carati’. Grazie alla straordinaria uniformità del loro peso (0,2 grammi) infatti, i carati erano utilizzati, in passato, come unità di peso nel commercio delle pietre preziose. Proprio dal termine greco keràtion e arabo kīrāt deriva il nome dell’unità di misura ‘carato’, equivalente a un quinto di grammo. Naturalmente, la credenza che tali semi abbiano tutti un peso uguale non ha fondamento scientifico. È un fatto però che la variazione di peso su una certa quantità di semi, presi alla rinfusa, arriva ad appena un quarto del totale; questo, insieme alla facilità nel constatare visivamente la differenza di dimensioni dei carati, potrebbe averne determinato l’utilizzo come peso comparativo. In passato, inoltre, i semi erano ricercati anche perché venivano torrefatti e consumati come surrogato del caffè.
Di prezioso il carrubo non aveva soltanto i semi. L’intero frutto (la carruba) era cibo gradito al bestiame (soprattutto cavalli e maiali) e anche all’uomo, che ne faceva gustose colazioni e frugali pasti consumati in campagna nelle pause dei faticosi lavori, quando, complice una povertà assoluta, non ne costituiva l’unica fonte di sostentamento; in questo caso, le carrube raccolte venivano gelosamente conservate in grandi orci di terracotta chiamati putali. Consumatori illustri di carrube sembra siano stati san Giovanni Battista, durante la sua permanenza nel deserto (sono per questo chiamate anche ‘pane di san Giovanni’), e il noto ‘figliol prodigo’ dell’omonima parabola evangelica, quando, posto a guardia di maiali, si alimentava del loro cibo.
Se assaggiate crude le carrube risultavano dolci, essiccate al sole e poi abbrustolite divenivano amarognole con un sapore simile al cacao, fino a essere considerate ‘il cioccolato dei poveri’. La versatilità del prodotto, unita all’ingegno proprio della cultura contadina, ha portato finanche alla realizzazione di un particolare ‘dessert’, ottenuto mescolando la graniglia ottenuta dalle carrube grattugiate con manciate di ‘rara’ neve fresca.
Naturalmente non poteva mancare un uso medicamentoso delle carrube, come il decotto di carrube (ticòttu ti còrnuli), efficace contro la tosse insistente. Esso prevedeva (con alcune varianti) fiori di malva, fichi secchi, fiori di fichi d’India, bucce d’arancia e una capsula di papavero da oppio.
Un’ulteriore particolarità legata al carrubo è data dal Laetiporus sulphureus, un fungo parassita privo di gambo, formato da più cappelli sovrapposti di colore giallo-arancio che, talvolta, può trovarsi sul tronco dell’albero: il ‘fungo del carrubo’, dalla controversa commestibilità.
Infine, una caratteristica ‘genica’ del carrubo (assieme alla sua longevità, anche 500 anni) è la presenza, all’interno della pianta, di uno strato di tessuto particolare, costituito da cellule aventi la proprietà di rigenerare spontaneamente qualsiasi organo della pianta, perché esse non sono localizzate solamente all’apice del germoglio e alla punta della radice, bensì dappertutto.
Nella tradizione popolare manduriana, la còrnula compare in un’espressione rivolta a una persona eccessivamente magra: è mazzu comuna còrnula ( = è magro come una carruba).
Inoltre, in un rogito del notaio Felice Pasanisi del 1 gennaio 1592 è attestata la località La Còrnula sita nell’allora territorio di Casalnuovo, ai confini con il territorio di Maruggio. Probabilmente, il toponimo si spiega con la presenza di un numero considerevole di alberi nella zona di riferimento, anche se, allo stato attuale, vi compaiono radi alberi e cespugli, verosimili residuati di boschi un tempo ricchi di carrubi, alimenti per probabili allevamenti di maiali nella zona. Sul luogo insiste altresì una casina Còrnula, ormai disabitata. Negli status animarum del 1693, in Casalnuovo è censita anche una Strada della Cornola che sorgeva nel rione del Rosario.
BIBLIOGRAFIA: Nardone D., Ditonno N., Lamusta S., Fave e favelle, le piante della Puglia peninsulare nelle voci dialettali in uso e di tradizione, Centro di Studi Salentini, Lecce 2012; Coco Rosario Giuseppe, Manduria, tra Taranto e Capo d’Otranto. Etimo, mito e storia del territorio, Centro Culturale GS, Manduria 2009; Rholfs Gerhard, Vocabolario dei dialetti salentini (Terra d’Otranto), Congedo editore, 1976; Brunetti Pietro, Vocabolario essenziale, pratico e illustrato del dialetto manduriano, Graphika PB&C, Manduria 1989..
SITOGRAFIA: https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/08/27/limportanza-del-carrubo-e-dei-suoi-frutti/