Gli Ebrei a Casalnovo (Manduria) di Michelino Fistetto

Non abbiamo una profusione di notizie sulla storia degli Ebrei nell’Italia Meridionale, se non quelle del Ferorelli[1], anche se ormai piuttosto datate (I Ediz. 1915, ristampa 1965) . Vi è inoltre lo studio del Milano[2] riguardante l’intero territorio della nostra nazione e infine i più recenti e validissimi studi di Cesare Colafemmina[3], riguardanti specificamente la Puglia, e, ancor più, il territorio di Manduria in un  particolare contributo di quello studioso, con cui egli partecipò allo specifico Seminario tenutosi in questa nostra Città (16-17 dicembre 1989)[4]. Altri studi sono stati dedicati alla problematica presenza degli Ebrei in Casalnovo dal compianto Rosario Jurlaro[5], e dal concittadino onorario, ricercatore di chiara fama, prof. Gérard Delille, illustre storico francese della Ecole des Annales, che alla storia patria mandurina in età moderna, ha dedicato tempo, impegno, pazienza e virtù.[6]

Il sottoscritto, d’altronde, è particolarmente convinto -soprattutto dopo aver studiato e pubblicato il suo saggio storico-teologico sulla “strana processione verde” del pellegrinaggio penitenziale San Pietro in Bevagna-Manduria[7], a cui rimando l’appassionato lettore- che un momento importante della vita e della storia dell’antica Casalnovo, l’odierna Manduria, è stato contrassegnato proprio dalla presenza di un consistente numero di Ebrei, divenuti cristiani novelli, come erano detti i neoconvertiti al cristianesimo, tra la seconda metà del Cinquecento e la prima metà del secolo successivo. Non è un caso se uno di loro, Pirro Varrone -cristiano novello e ricco ebreo, divenuto tale ma in modo assai chiacchierato, perché probabilmente dedito all’usura- divenne Sindaco della Città.            


Questo periodo meriterebbe studi ancor più approfonditi per meglio chiarire il senso della partecipazione ebraica alla vita sociale di Casalnovo nei decenni in cui vissero nel ghetto, che li relegava forzatamente in un preciso percorso viario delimitato da porte in pieno centro storico cittadino, le cui testimonianze urbanistico-architettoniche sono ancora oggi nettamente riscontrabili. La loro stanzialità fu particolare, caratterizzata dalla loro specifica cultura e religiosità (si parla anche della presenza di una Sinagoga, tutt’oggi visibile!) fino al momento in cui quel ghetto, divenne giudecca[1], continuando perciò a sussistere, nella sua realtà abitativa e residenziale  anche alla fine dell’imposta segregazione [2].                                                        Afferma la prof.ssa Erika Bascià, a proposito della tematica evidenziata e trattata  nella prefazione al su citato mio volume: “… il punto nodale  dell’esperienza di [questa] nuova esegesi religiosa, offre ai lettori ipotesi piuttosto originali sulla convivenza e sulla mistione di riti emblematici nella comunità mandurina. A partire dal Cinquecento, in questo territorio, infatti, la tradizione fa da giuntura tra due eredità religiose persistenti, quella cattolica e quella ebraica (se pur minoritaria), culture che nel tempo si sono più volte incontrate e respinte, fino ad operare tra loro una larga sintesi, aperta ad una molteplicità di altre influenze e ad una nuova razionalità.”(pag.6)

La  Bascià magistralmente  sintetizza   in  poche  righe  la  mia  tesi. Io sostengo infatti che questo fenomeno di religiosità popolare, ossia la processione penitenziale, è probabilmente collegato ad antichi culti pagani, di cui si è perduta la memoria, assorbiti poi dal Cristianesimo nel corso dei secoli, rimaneggiati e caricati di significato penitenziale dal tipico contesto della cultura medievale e tramandati, con modalità di adattamento ai tempi, fino ad oggi, con canti, preghiere e rituali del tutto unici. Nel Cinquecento tale fenomeno assorbì -frutto di contaminazione e/o commistione culturale, che ai giorni nostri amiamo definire “integrazione” tra il cattolicesimo e l’ebraismo- elementi catechetici e rituali dell’una e dell’altra fede religiosa, dato il rilevante numero di cristiani novelli, in quel tempo in Casalnovo.


Allora infatti maturò la conversione in massa, dall’Ebraismo al Cattolicesimo, degli ebrei stanziati nel ghetto, come riportano le fonti storiche coeve e non, per i più diversi motivi. Secondo me: pro coscientia, pro bono pacis, o addirittura, piuttosto, obtorto collo e, quindi, soltanto -o almeno- in apparenza.

Pro coscientia, ossia per autentica conversione; pro bono pacis, per evitare  problemi con le autorità in genere, religiose o laiche; obtorto collo, ossia solo in apparenza e per costrizione, per nulla convinti nè convertiti intimamente.

Facile intuire le prime due motivazioni. La terza più complessa, mi convince personalmente ancor più dopo aver letto in quest’ultimo torno di tempo (e su suggerimento dell’amico a me assai caro -che qui ringrazio- Avv. Luigi Stano, cultore anch’egli di Storia patria mandurina), il volume della studiosa Donatella Di Cesare[1], che prima della pubblicazione del citato mio libro ignoravo del tutto.

Qui veniva avallata in qualche modo la mia teoria: ossia il concetto di particolarissima contaminazione nelle culture fra popoli, segnatamente fra Ebrei e Cristiani. Da qui il prezioso suggerimento di Stano.

La Di Cesare, infatti, nel suo libro esemplifica la contaminazione fra ebraismo e islamismo suggerita da un illustre filosofo ebreo di nascita, Moshè della Famiglia dei Maimonide, fuggita da Cordova intorno al 1160, per evitare la feroce persecuzione dei musulmani. Moshè, vissuto nella seconda metà del XIII secolo, per la sua efficiente capacità scientifico-professionale era divenuto medico personale di Saladino presso la sua Corte, ma parlava per esperienza vissuta sulla propria pelle dalla sua famiglia. Infatti questa da sempre, fuggita da Cordova, invece di dirigersi verso altre mete ebraiche più sicure, si era addentrata, nel suo itinerario, sempre più verso il centro dell’Impero islamico, simulando probabilmente la conversione dall’Ebraismo all’Islam. L’ebreo Moshè era considerato come la più stimata autorità rabbinica della diaspora e riconosciuto come grande pensatore: egli aveva tentato di coniugare il Talmud con la filosofia, ma questa sua interpretazione lo aveva emarginato dal contesto religioso e filosofico ebraico.

Nel suo scritto più noto Lettera sull’Apostasia affronterà lo scabroso tema del martirio per fede. Egli sostiene che il martirio non può essere un atto richiesto alle moltitudini, bensì un gesto occasionale, vissuto al massimo da qualche singolo. Di fronte al rischio della vita, bisogna dissimulare le conversioni. Bisogna, di seguito, affrontare un cammino interiore, che consenta di tornare ad introitare i fondamenti della legge ebraica, accompagnando il tutto da un cammino nella vita reale, che porti alla ricerca di una terra dove poter professare liberamente quella legge ebraica introitata.    Ove il secondo cammino non fosse possibile, allora occorreva contaminare usanze e tradizioni locali con quelle ebraiche, per consentire


l’esteriorizzazine di queste ultime. Anche in altre occasioni Moshè ritornò sull’argomento, rimarcandolo e confermando in toto quanto da lui scritto (p. 23 passim).

Come ognun vede, la dottrina di quel filosofo, sintetizzata da Donatella di Cesare nel suo volume, per analogia rafforza enormemente la mia teoria che riguarda cattolicesimo ed ebraismo: motivo per cui ho ritenuto utile stralciarne summatim un passo che ritengo interessante e probatorio a quel fine. Quanto meno aggiunge un autorevole nuovo tassello alla mia teoria che rimane tale, ossia ipotesi scientificamente condotta, ma solo ipotesi, anche se viene perciò ad essere rafforzata, fino a quando non si trovi, si spera, idonea documentazione.

Si tratta dunque, come odierni cittadini, di prendere coscienza di questa pagina di storia del nostro passato, valorizzando quella giudecca di cui abbiamo parlato e quella processione da me analizzata.     Il compianto Dott. Michele Greco, storico bibliotecario della nostra Biblioteca Comunale “Marco Gatti” amava definirla  “processione del bosco che si muove” per la sua tipicità e peculiarità.

Essendo questa una pia tradizione secolare, legata alla leggenda dello sbarco di San Pietro Apostolo sui nostri lidi nel suo viaggio da Antiochia a Roma, ma collegata anche alla locale cultura contadina – per cui la traslazione del quadro avveniva sempre in tempi di calamità naturali o di carestia per implorare dal Santo la caduta della pioggia, o comunque, per Sua intercessione, un buon raccolto- anche la Chiesa cattolica, tramite l’Ordinario diocesano pro-tempore, il santo Vescovo Mons. Michele Castoro, ha fissato recentemente, con un Decreto datato 25 giugno 2009, l’istituzionalizzazione dell’avvenimento a cadenza quinquennale, mentre fino a quella data non aveva mai avuto, per le motivazioni già dette, una periodicità fissa.

La sua tipicizzazione la rende peculiare, dicevamo. Basterà partecipare anche una sola volta di persona al suo svolgimento, o vedere le foto -dai dagherrotipi ai giorni nostri-, o ancor meglio, visionare il breve ma interessante cortometraggio storico realizzato anni or sono per conto del Comune di Manduria dal Dott. Costanzo Antermite, che la documentano, per rendersene personalmente conto, ed apprezzare la ricaduta indiretta di positivi effetti sociali sulla comunità cittadina.

Nel contempo, pertanto, non mi esimo, tuttavia, dal richiedere a me medesimo, a tutta la società civile mandurina, all’amministrazione pubblica -nella speranza di essere ascoltato, una tantum, per il bene anche materiale e/o economico di Manduria, a tutte le formazioni politiche e culturali della Città, l’appello a rivolgere a Parigi, sede dell’UNESCO, la petizione per il riconoscimento, meritamente, della processione penitenziale di Bevagna, come bene culturale immateriale dell’Umanità.  Sic est in votis meis!