I fratelli invidiosi.

Un padre aveva tre figliuoli, i due maggiori dei quali erano incorreggibili giuocatori, fino al punto da commettere le più vili azioni, per alimentare quella maledetta passione.

Il più piccolo di tutti, a nome Giorgio, era invece un savio e bravo giovine, bello di forme come un arcangelo, di soli venti anni di età.

Un giorno mentre i due fratelli, come il solito, giuocavano accanitamente in una bisca, passò per la via il Viatico.

Quei due miscredenti, al suono del campanello che l’annunziava, non vollero lasciare il giuoco, per inginocchiarsi cogli altri, e pronunziarono una bestemmia.

 Ritiratisi poi sulla sera, in casa, trovarono il padre morto.

Si divisero allora quel poco che aveva lasciato il dabben uomo; però il fratello minore, per salvare dalla vergogna i due altri, diede loro anco il suo avere.

Passò da quella città un ricco mercante.

Giorgio gli si presentò.

–        Prendetemi con voi, – disse – giacché non so come vivere. Vi assicuro che sarò onesto, e guarderò i vostri interessi con ogni cura e attenzione.

Il mercante, rassicurato dalla bella presenza di Giorgio, lo tolse seco, e si posero insieme in viaggio.

Il giovine camminava a piedi, e, per il lungo tragitto, aveva insanguinate le gambe e i piedi.

Il mercante gli promise che, giunti alla prossima città, gli avrebbe acquistato una cavalcatura.

Allora passò accanto a loro un vecchio, montato su una bianca giumenta.

–        Volete vendere questa bestia? – gli domandò Girgio.

–        Sì, – rispose il vecchio, – purché me la paghiate cento ducati d’oro.

Il prezzo era alto; però, tanto Giorgio pregò il padrone, che questi sborsò il denaro, senza dispiacere.

Dopo vari mesi di viaggio, il mercante prese tanto affetto per Giorgio, che, esendo egli solo al mondo, lo adottò per figlio,e gli diede tutti i sui averi.

Dopo un lungo viaggio, giunsero finalmente alla capitale di un potente impero.

Messosi il giovine a gironzolare, si avvide che i suoi fratelli trovandosi colà come portinai al palazzo del re.

Riconosciutisi, e narratesi a vicenda le sorti delle proprie avventure, si promisero di aiutarsi scambievolmente, cioè l’uno avrebbe dato agli altri una buona somma di denaro, e quegli lo avrebbe presentato al re, perché acquistasse stoffe e gioielli dal mercante.

I due fratelli maggiori però videro con invidia la fortuna di Giorgio … e allora, invece di presentarlo al re, lo accusarono a costui di superbia e millanteria.

–        Che cosa ha dunque detto? – domandò loro il potente monarca.

–        Maestà, – risposero quelli, – ha detto che egli solo ha la potenza di ritrovare nel mondo l’uccello che ride e che canta.

–        Davvero?

–        Davvero, maestà.

Il povero giovine fu tratto alla presenza del re.

–        Voi avete detto che avete la potenza di ritrovare l’uccello che ride e che canta? – domandogli il re.

–        Maestà, io non ho mai pronunziato queste parole! – esclamò atterrito Giorgio.

–        Vi do tre giorni di tempo, – proseguì l’altro: – se in questo termine, non mi porterete l’uccello che ride e che canta, la vostra testa cadrà sul palco …

Sgomento, accasciato sotto il peso della sua sventura, andossene piangendo l’infelice giovine, e tolta la giumenta, avviossi verso la campagna.

–        Come farò? Come farò io sciagurato? – pensava infra i singhiozzi.

All’improvviso intese una voce.

Porse l’orecchio. Era la giumenta che parlava.

–        Non piangere, – dice essa, – perché io ti salverò. Prendi con te una misura di grano, una di fave, e due o tre pezzi di pane. Domani partiremo alla ricerca dell’uccello.

E partirono.

Passarono per un bosco. Un branco di cinghiali si avventò contro il cavaliere. Allora questi gettò per terra le fave, e poté proseguire il viaggio.

Poco dopo dovettero traghettare un lago. Una grande infinità di pesci intercettò loro il cammino. Giorgio allora gettò nell’acqua i pezzi di pane e proseguì.

Giunti in un’immensa pianura, uno sciame innumerevole di grossi uccelli a far loro ostacolo. Allora il giovine gettò per terra il grano, e fu lasciato in pace. Sulla mano aperta tenne, però, un poco di quel grano … un uccello vi si posò: egli lo prese, e lo portò al re.

–        Maestà, – disse, – ecco l’uccello che ride e che canta.

Il re stupì della sua bravura, e lo ricompensò con il largo regalo di oro.

Giorgio generoso come sempre, diede ogni moneta ai fratelli, i quali, appena avutala, corsero a giuocarla, e presto tutto perdettero.

Allora, essi, per aver altro denaro, accusarono nuovamente il fratello al re.

–        Maestà – dissero, – ha detto superbamente ch’egli soltanto ha la potenza di portare a voi prigioniera la fata Arcina di Troia, quella vaghissima donzella che invano da tanto tempo ricercate, e della quale siete perdutamente innamorato.

–        Davvero? – domandò il re.

–        Lo giuriamo maestà.

Giorgio fu tratto di nuovo alla presenza del re.

–        Voi avete detto di possedere il modo di condurmi la fata Arcina di Troia?

–        Ohimé,  sire, io mai non dissi quest’eresia.

–        Bene vi do tre giorni di tempo per compiere la gesta: dopo, o riuscirete nell’intento, e vi premierò; o fallite, e vi farò decapitare.

Nuovamente desolato andossene l’infelice giovine presso la sua fedel giumenta, e le narrò la nuova insidia de’ fratelli.

–        Non piangete, – risposegli la docile bestia; – domani partiremo alla ricerca della fata. Bada, ritroveremo i medesimi cignali, i medesimi pesci, i medesimi uccelli: essi ricordano i benefici che l’altra volta che loro porgesti. E tu di’ loro questa parola: “Aiutatemi!”. – E partirono.

Il branco di cignali si aprì al loro passaggio, mentr’egli diceva: “Aiutatemi!”.

Lo stolo di pesci si divise in due ale, e intese la dolce parola: “Aiutatemi!”.

Dopo lungo cammino, arrivarono in prossimità di una città senza abitanti. Innumerevoli colonne si elevavano dal cielo, altissime.

Erano esse i cavalieri che avevano tentato di rapire la fata, e che da questa erano stati trasformati in quel modo.

Appena arrivati colà, una bella fanciulla si presentò a loro:

–        Chi siete? – domandò con dolcissima voce.

–        Sono un povero cavaliere, – ei rispose, – che ha perduto il sentiero …

–        Qui avrete òarga ospitalità, – soggiunse ella; – Scendete da cavallo.

–        Da cavallo non scendo; salite voi con me.

La fata non sospettando che la giumenta era incantata salì in groppa: allora la generosa bestia cominciò a correre velocemente, sì che parea un fulmine.

La fata volea gettarsi d’arcione, lo spavento de’ cignali, de’ pesci e degli uccelli ne la ritennero.

Giunsero alla reggia.

Il re non credea a tanta fortuna, e rimirava appassionatamente la vaghissima donna.

–        Vuoi esser regina? – le domandò poi.

–        Maestà che facciate passare in mezzo una catasta di legna ardenti colui che mi ha rapita, il vostro fido Giorgio.

Impallidì costui, e il re dette gli ordini perché così fosse fatto.

E Giorgio si disperava, e piangeva, quando la sua giumenta gli disse:

–        Domani vieni qui; raccogli il mio sudore, e con esso ungiti il corpo, sarai salvo.

Così fece il fortunato giovine, e con somma meraviglia di tutti, passò illeso più e più volte in mezzo alle fiamme.

Allora la fata diee:

–        Maestà un altro esperimento, e poi sarò vostra. Ora dovrete passar voi nel fuoco, e spero ne rimanete incolume.

Il re, spinto dalla grande passione, ubbidì. Ma il poveraccio rimase vittima di tanto amore, e non uscì più dalle fiamme.

Allora Arcina diede una mano a Giorgio e gli disse:

  • Tu mi traesti dalla solitudine, e dall’oblìo. La mia mano è tua, e questo regno è nostro!