I sette nonni di Muzio.

In via delle Ceramiche, a Taranto, si trovava negli ultimi anni della sua vita Muzio C., un arzillo novantenne che amava ricordare la sua gioventù più della sua vecchiaia ed era conosciuto per i suoi sette nonni, uno per ogni giorno della settimana. Era nato e cresciuto a Uggiano Montefusco con la nonna materna, una donnina tutta pelle e ossa, chiamata Carola “Setti Sajetti” un po’ per il carattere battagliero, un po’ perché sette uomini ricorrevano nelle storie della sua vita e lei, nelle fredde sere che portavano per mano dall’autunno alla primavera, radunava i nipotini, tanti, e raccontava la storia della sua giovinezza.

Non si era mai mossa dal paese, anzi per lei era fin troppo grande e rumoroso, abituata a vivere in campagna, in una grande dimora nobiliare, figlia dei massari e quindi privilegiata perché i suoi avevano i locali per vivere, l’acqua della cisterna per bere e lavarsi, i vestiti smessi delle figlie di nonna Ippolita, padrona di quella e di altre masserie, altrettanto ricche; quando la padrona, che era rimasta vedova in giovane età, andava a controllare il raccolto del grano o delle olive o del tabacco, ci metteva sette giorni prima di tornare. A casa di nonna Ippolita c’erano tre figlie femmine, deturpate dal vaiolo, stizzose e insofferenti della campagna e sette figli maschi, uno diverso dall’altro, chi biondo, chi moro, chi con gli occhi verdi, chi castani, chi grasso, chi magro, chi alto, chi basso, chi allegro, chi malinconico, ognuno votato al suo destino fino dalla nascita.

Il maggiore aveva ereditato titolo e buona parte dei possedimenti, poi aveva sposato una, pari suo, di Lecce ed era andato a vivere là; il secondo era entrato in seminario a Taranto ed era diventato un teologo importante, il terzo era andato in Piemonte (lei non sapeva dove fosse, certo molto lontano) con il nuovo re; gli altri avevano spartito quel che rimaneva dlla proprietà e facevano chi l’avvocato a Napoli, chi il notaio a Taranto, chi il gentiluomo di campagna con la dote della moglie, chi non faceva nulla, perso dietro le cantanti che conosceva al teatro D’Ayala dove aveva un palco di proscenio. Carola “Setti Sajetti” era cresciuta alla masseria, non era andata a scuola e conosceva la vita attraverso le stagioni e i loro frutti.

A quindici anni era una bellezza, “na carusedda”, come la chiamava la madre con orgoglio, e così, per riguardo a quell’opera di Dio, non l’aveva mai mandata in campagna, né a pascolare, né ad accudire ai cavalli, sognava per lei un avvenire migliore e dove trovarlo se non nella stessa casa dov’era nata e cresciuta? Così il lunedì veniva a trovarla don Cosimo, il giovane barone, arrivava da Lecce, dimentico della moglie e dei figli e le portava i dolci di mandorle che davano un sapore particolare ai baci e agli abbracci. Il martedì tornava dal seminario don Donato Antonio e portava i santini con le trine; sapeva di incenso e di lavando, aveva mani bianche, morbide nelle carezze. Il mercoledì arrivava notar Nicola, ancora giovane di studio preso un notaio importante; nell’amplesso le raccontava fatti e misfatti delle famiglie che andavano a sbranarsi per il patrimonio e le portava qualche pezza di seta.

Il giovedì arrivava da Lizzano don Marcello, sapeva di cuoio, per le lunghe cavalcate, aveva la pelle scurita dal sole e le mani callose per l’uso della frusta e delle briglie, le portava gioiellini che lei teneva in uno scrigno segreto. Il venerdì accoglieva nel suo grembo generoso don Cataldo, reduce da qualche amore canterino; mentre la stringeva, lui raccontava dei vestiti, dei cappelli, delle trine di seta che indossavano le attrici delle compagnie e una volta le aveva portato una sciarpa di struzzo e aveva fatto l’amore così, con le piume che solleticavano.

Il sabato era la volta di don Nicola, lo studente che stava a Napoli, le cantava arie struggenti che lei non capiva. La domenica arrivava il bel tenentino, don Ferdinando, che le sussurrava parole dolci nella lingua che si parlava alla corte dei Savoia e lei si sentiva una principessa. Quando nacque Assuntina, la madre di Muzio, tutti i contafini, ed anche i signori, andavano a vedere quella strana bambina: un giorno era bionda, un giorno era mora, gli occhi verdi diventavano castani, un giorno piangeva, un altro rideva; crescendo rivelò una passione sfrenata per i cavalli, cantava arie di Paisiello, recitava lunghe tiritere in latino, era sempre la prima ad infilarsi nelle zuffe per fare da paciera. Insomma, aveva preso qualcosa da ognuno dei suoi probabili padri. Muzio C. ne era orgoglioso e piangeva di commozione parlando dei suoi sette nonni.

Bibliografia: Scuola Statale Marugj-Frank di Manduria, powered by Cosimo Pesare designer. 2005.