Il colera a Manduria ed Uggiano nella fine dell’ottocento.

Era luglio del 1865 quando Manduria fu investita da un’epidemia di colera, unica città in Italia ad esserne colpita. Si narra che il colera sia stato trasmesso da un certo Giovanni Piccione, proveniente da Brindisi, che aveva contratto il morbo lavorando su una nave turca ancorata nel porto di quel capoluogo. L’epidemia si propagò rapidamente, tanto che molti, per timore di essere contagiati, fuggirono da Manduria per rifugiarsi nelle campagne vicine, dove vi era meno probabilità di infettarsi. Altri, invece, rimasero accanto ai malati e ai moribondi, impegnandosi coraggiosamente ad assisterli. Tuttavia, i mezzi dell’epoca non erano certo efficienti come quelli attuali, e la forza d’animo dei volontari non bastò ad arrestare la diffusione del morbo, che portava al contagio e alla morte. Unico conforto rimaneva la preghiera, rifugio dalla paura e fonte di speranza. Per questo, il popolo accorse nelle varie chiese della città per invocare la protezione divina. Come da consuetudine ogni volta che si verificava una sciagura a Manduria, la statua della Madonna Immacolata fu portata in processione dai fedeli fino all’attuale piazza Garibaldi. Un prete invitò la gente a essere più buona e a diffondere la pace tra gli uomini.

Nonostante i nostri concittadini pregassero e scongiurassero ulteriori casi di colera, in tre mesi (tanto durò l’epidemia) il colera imperversò, causando 400 vittime. Furono preziosi per i manduriani i soccorsi giunti celermente da Sava e, solo più tardi, quando il morbo stava cessando, anche il governo inviò altri aiuti. A distanza di tempo, l’epidemia si manifestò una seconda volta a Manduria, dopo essere comparsa per soli 15 giorni nella frazione di Uggiano Montefusco, mietendo lì 29 vittime, come riportano le cronache dell’epoca. Era la sera del 28 giugno 1886 quando il colera riapparve implacabile. L’allora sindaco della nostra città, Orazio Filantropo Schiavoni, convocò la commissione comunale di sanità per fare il punto della situazione e ordinò l’isolamento dei colerosi. La stessa commissione curò i malati affetti dal morbo nelle loro dimore, praticando accurate disinfezioni nelle case degli sfortunati. Nonostante tutte le precauzioni adottate, tra cui quella di non far rientrare in città da Uggiano gli addetti al servizio sanitario e farli dimorare per almeno otto giorni nel lazzaretto, o quella di disinfettare i medici e le persone che avevano prestato soccorso nella vicina frazione (nei pressi della Chiesa di Sant’Angelo), il morbo continuò a propagarsi. La diffusione del male fu attribuita alla trascuratezza nella pulizia personale e all’igiene generale della popolazione. Le condizioni di povertà e miseria dei nostri concittadini erano tali che alcuni sarebbero morti di inedia se non fossero stati colpiti dal colera. Più fortunati furono i “signori” di Manduria; molti di loro, infatti, non vennero contagiati dall’epidemia perché “presero il largo”. Come spesso accade nelle disgrazie, la sciagura colpì maggiormente la povera gente. Ciò fu aggravato dal fatto che il popolino temeva di sottoporsi a cure, credendo che i soccorritori potessero avvelenarli. Per prevenire la diffusione del morbo, si procedette immediatamente alla disinfezione delle case dei colerosi, degli orti, dei letamai e delle strade della città. Inoltre, i contagiati furono allontanati dalle loro abitazioni, portando con sé solo tappeti e pellami. Furono distribuiti denaro, cibo, vestiario e altri aiuti necessari per la sopravvivenza. Molti prestarono soccorso ai colerosi, tra cui giovani, parroci, le suore della carità, la Croce Verde e la Croce Rossa di Taranto, e il comitato dei leccesi residenti a Napoli. I malati furono ricoverati nell’ex convento dei Cappuccini, trasformato per l’occasione in lazzaretto, su concessione del senatore Giacomo Lacaita. I cadaveri furono seppelliti a due metri di profondità e coperti di cloruro di calce e calce vergine nel cimitero della Pigna, poiché il cimitero presso l’odierna via Sant’Antonio, dove erano stati sepolti i colerosi della prima epidemia, era ormai esaurito. Il contagio cessò il 15 agosto dello stesso anno, con un bilancio di 236 morti, esclusi quelli di Uggiano Montefusco. Ancora una volta, Manduria fu vittima della cattiva sorte, devastata e scossa dagli eventi, ma ne uscì vittoriosa grazie allo spirito caritatevole, alla forza d’animo e all’ardore religioso dei suoi concittadini.

Walter Pasanisi