Era il periodo dopo la prima guerra mondiale, nessuno era ricco ma, chi meglio, chi peggio, tutti riuscivano a campare. L’Africana era rimasta vedova con figli piccoli da sfamare, era chiamata così perché aveva pelle scura, bruciata dal sole; la fame la spingeva a cercare erbe da cucinare e bacche, e se poteva, metteva le mani nei nidi degli uccelli per rubarne le uova e tendeva trappole per i conigli selvatici. Così il vento dell’inverno e il sole dell’estate le avevano dato il colorito della terra in cui cresce l’ulivo. Non era nemmeno del posto perché a Uggiano Montefusco c’era venuta per matrimonio: così, forestiera, era diventata per tutti “l’Africana” e nemmeno lei si ricordava più il suo nome e cognome.
Un giorno era arrivato alla sua baracca un cavapietre; cercava un po’ d’acqua, magari vino; lei aveva solo il tesoro che sgorgava dal pozzo, l’unica ricchezza che le aveva lasciato il marito, visto che il governo non si decideva a darle quei quattro soldi che le spettavano. Anche lui non aveva nome e cognome perché fin da piccolo era stato nella cava “a zuccar petre”, così era per tutti “Zuccone”; era simpatico, chiacchierone, riusciva a dimenticare e a far dimenticare la fame. Si misero insieme, e quando andavano a messa, uno seduto da una parte, uno dall’altra, il parroco tuonava dal pulpito contro i pubblici peccatori, ma loro non sapevano nemmeno di cosa stese parlando; il matrimonio è per i giovani, e poi le altre vedove del paese avevano detto all’Africana che, se si sposava, non poteva più pretendere quello che lo Stato doveva darle per il suo povero marito.
Che facesse quindi come tante, sola e sconsolata per il Governo, consolata e accompagnata per sé. Ma un pensiero la rodeva, la povertà non consentiva alcun piacere; pane e cicoria e per condimento la feccia dell’olio raccolta al frantoio per la carità di padron Argentieri, un ricco possidente della zona; qualche cavolo che rimediava andando a zappare la terra degli altri e un po’ di fave durante la stagione.
Sulle altre tavole, per quanto modeste, compariva il vino, e per lei era un tormento non poterlo vedere, rosso e forte, né poter riempire un fiasco da due litri e farlo troneggiare sul povero desco. Così un giorno l’Africana andò al palmento di padron Argentieri che, oltre all’olio, produceva e vendeva vino; c’erano “capasoni” dappertutto, botti che sfioravano il soffitto, damigiane impagliate, imbuti di ogni dimensione e, nell’aria, un odore forte e dolciastro che le dava alla testa mentre il cuore batteva forte perché in giro non c’era nessuno e finalmente avrebbe potuto prendere un po’ di quel ben di Dio.
Bisognava solo trovare un recipiente da poter nascondere sotto la sottana. Ma attorno non c’era nulla che si potesse trasportare, così, per la rabbia e il desiderio di assaggiare almeno una volta “l’acqua de li baroni”, perché si sa i signori ci fanno il bagno, la donna si avvicinò “ntra lu limmu” pensando che fosse vino e giù a bere direttamente alla bocca del recipiente. Ma non c’era vino lì dentro, c’era l’acido per pulire i macchinari dalla ruggine, e l’Africana “pi la canna ti lu mieru si ni scìu allu cimiteru” (per il desiderio del vino se n’andò al cimitero).
Bibliografia: Scuola Statale Marugj-Frank di Manduria, powered by Cosimo Pesare designer. 2005.