Nella prima metà del Novecento sorsero a Manduria delle fabbriche dove si depositavano e confezionavano i fichi secchi. Intorno agli anni Trenta, il sig. Ernesto Soloperto avviò questo tipo di attività. Nella nostra città vi erano altre due fabbriche: una del sig. Leonardo Daversa e l’altra del commendatore Epifani. L’opificio del sig. Soloperto era ubicato in via Roma (attualmente il locale è stato adibito a negozio per la vendita di divani). In questa fabbrica lavoravano circa una ottantina di operaie e un paio di operai. La paga quindicinale per ogni lavoratrice era di circa cento lire. Tra le operaie si aggirava una figura femminile molto importante per l’epoca, l’antéra, che era la dipendente della fabbrica più esperta e responsabile, spesso con funzione di mediatrice fra il titolare e le manovali, pronta a sollecitare le operaie più lente. L’attività della fabbrica cominciava solitamente alla fine di agosto con lo stoccaggio e la sgusciatura delle mandorle secche. Le mandorle venivano immesse in grandi pile di pietra con bordi larghi e piatti alle estremità, sui quali le operaie schiacciavano i noccioli con dei martelli per prelevarne il seme. Più tardi, negli anni Cinquanta, fu utilizzata una macchina che rendeva più celere l’operazione di sgusciatura del frutto secco e agevolava di fatto il lavoro delle donne. Solo a settembre iniziava la vera e propria lavorazione dei fichi, che terminava a novembre. Questo prodotto solitamente proveniva dalle campagne situate nel circondario della nostra città o della vicina Maruggio. La qualità più scadente dei fichi, lu scartu, veniva acquistata a parte dalla fabbrica a basso prezzo, in quanto era utilizzata dalle distillerie per la produzione di alcool oppure dagli zuccherifici per quella dello zucchero. I fichi di migliore qualità, invece, già seccati e tagliati a metà, venivano trasportati dai contadini con i traini e stoccati in un salone della fabbrica che fungeva da magazzino. Qui, le lavoratrici li prelevavano con dei grandi canestri, poi i fichi, presi uno ad uno dai contenitori, venivano accoppiati con altri della stessa grandezza, già tagliati nello stesso modo, e farciti con mandorle. Terminata questa operazione, le operaie più giovani, generalmente ragazze di età compresa fra i 12 e i 15 anni, sistemavano le coppie di fichi (poste di traverso ben allineate in modo che se ne potessero introdurre il più possibile) in grandi teglie rettangolari, le štanáte, per essere successivamente trasferite nel reparto forno, dove il fornaio e il suo aiutante provvedevano alla cottura. A cottura ultimata, ancora caldi, i fichi venivano posati sotto le presse metalliche (più tardi costruite in legno), dove venivano compressi e aromatizzati con foglie di alloro. Dopodiché si passava alla fase successiva della lavorazione, che consisteva nel confezionare il prodotto con pellicole di cellofan chiuso da lacci, oppure avvolgendolo in carte merlettate e ponendolo all’interno di cestini in vimini chiusi e avvolti da cordicelle. Le confezioni in cestini potevano pesare uno, tre o cinque chili ciascuno, mentre quelle in cellofan generalmente erano di mezzo chilo o duecentocinquanta grammi. In un mese, nella fabbrica del sig. Soloperto venivano confezionati circa 130 quintali di fichi. In base alle richieste degli esercenti, i fichi impacchettati venivano spediti con carro ferroviario che partiva dalla stazione di Manduria per giungere nelle varie località pugliesi. I commercianti al dettaglio e i grossisti locali provvedevano a commercializzare il prodotto in tutta Italia. Nel periodo bellico, le confezioni di fichi venivano inviate anche ai soldati impegnati al fronte. Quando, a fine stagione, le attività della fabbrica terminavano, come da tradizione, il titolare organizzava per tutti i suoi dipendenti un grande pranzo, il capucanali, in segno di ringraziamento per il lavoro svolto e di buon augurio per l’avvio della successiva stagione.
Walter Pasanisi