Il lavoro della tessitrice è antichissimo. A Manduria le tessitrici lavoravano la lana e il cotone. La lavorazione della lana era un’attività molto praticata per la presenza di un gran numero di masserie, ma la qualità del prodotto da lavorare era scadente perché mancava la selezione delle razze ovine. La lana infatti, veniva utilizzata per i bisogni delle classi popolari e per un limitato numero di manifatture (…). Le nostre nonne si dedicavano alla lavorazione della lana tosata dalle pecore. Questa lana, dopo essere stata lavata e asciugata, veniva aperta con le mai finché non assumeva una forma leggera e piumosa. Dopo di ché si lavorava con il fuso, un arnese di legno che permetteva di trasformare la lana in fili coi quali facevano dei grossi gomitoli, per essere lavorati e tessuti. La tessitrice filava in casa la lana (…) che veniva lavata nel fiumicello di Borraco, ma era soggetta al pagamento della dogana. A Manduria, si tessevano le mante che si diffondevano in tutto il Regno di Napoli. Si confezionavano anche mantelli, capani, cappotti tinti di nero. Le mante, per lo più, non erano tinte, ma conservavano il colore della lana; erano ruvide, ma calde (…). Diffusa era anche la tessitura del cotone che veniva lavorato col fuso o con un filatoio a pedali. Le tessitrici intrecciavano al telaio lunghi rotoli di tela per fare coperte, tovaglie, camicie e biancheria da corredo (…). Nel Settecento e Ottocento, infatti, la coltivazione del cotone era diffusa nel tarantino, ma non riuscì mai a sostituirsi a quella più diffusa dei cereali, della vite e dell’ulivo. Numerosi piccoli coltivatori si dedicavano alla coltivazione del cotone, ma poco si sa dell’estensione del terreno destinato a tale produzione (…) Le tessitrici tessevano le fasce di bambagia strette e lunghe (…). Tessevano al telaio anche le stoffe per gli abiti degli sposi, per quelli della festa e per quelli di lavoro (…). Le donne tessevano ai telai anche i sudari per i morti ed avevano cura di tesserli bene: di lino candido quelli dei nobili, di bambagia ritorta quelli degli altri che non venivano disposti nel baule di noce foderato di zinco, ma in quattro assi di abete da far marcire sotto terra (…). Il pettine con il quale le donne battevano costantemente il tessuto ad ogni ritorno della lesta spola di legno levigato costruita a forma di navicella con nel cuore ad incavo un rocchetto di filo avvolto ad un segmento di canna, era costruito anch’esso con sottili pezzi di scorza di canna pazientemente dai pettinári (…). Nelle ceste, intrecciate con canne e virgulti di lentischio (…) vi erano dozzine e dozzine di segmenti di canna, i più piccoli lunghi quattro dita, gli altri, più grossi, un palmo. I piccoli erano i cannulícchi o rocchetti per le spole e si riempivano aprendo le matasse di ritorno all’arcolaio anche esso di canna (…). Il filo della matassa si avvolgeva a rocchetto di canna infilato ad esse che aveva in alto un volano di ferro o di legno e la punta arrotolata . Era questo l’orditoio a forma di spiedo che, come una gigantesca trottola dall’altissimo piede, si faceva girare, con la punta nell’incavo di un pezzo di legno d’ulivo che si teneva stretto tra le gambe, dando colpi precisi con il cavo di una mano e tenendo obliquo con l’altra appena chiusa.
“L’utile canna” di R. Jurlaro, Galatina, Congedo editore, 1975. “Agricoltura e manifatture tessili in terra d’Otranto nella sonda metà del XVII secolo di Giuseppe Sirsi. Quaderni Archeo. NN° 6-7, maggio 2002. Barbieri editore. Biagio R. Saracino, Detti Popolari… G.A.L. 2006. “Produzione tessile e industriale nel territorio di Taranto nel XVIII secolo… “di Antonio Pasanisi,. Provveduto editore, gennaio 2001.