La rivolta dei contadini manduriani: le proteste del 1902 e quelle del 1960.

Diverse furono, in passato, le agitazioni dei coltivatori manduriani, che scaturirono dal generale malcontento diffusosi nel Mezzogiorno italiano. Già all’inizio del 1800 gravavano sui contadini del Sud condizioni di estrema miseria, e le speranze di miglioramento delle loro condizioni sociali furono più volte deluse. I governi che si succedettero non seppero mantenere le promesse di cambiamento né colmare la sfiducia delle masse contadine, ormai impazienti.

Il duro sfruttamento da parte dei grandi proprietari terrieri e le privazioni cui i braccianti meridionali erano sottoposti pesavano sempre più sull’esistenza dei nostri lavoratori agricoli, che, stanchi di subire, protestarono. Le contestazioni dei braccianti talvolta sfociarono in vere e proprie rivolte. La cronaca manduriana ci tramanda alcuni episodi di sommossa popolare che esplosero agli inizi di questo secolo e nei primi anni Sessanta.

Era il 6 agosto del 1902. Il lavoro per i salariati scarseggiava, poiché i proprietari terrieri si servivano di contadini giovani per le attività nei campi, mentre gli anziani restavano disoccupati. Per manifestare contro l’ingiusta pretesa dei loro padroni, i braccianti si riunirono in piazza Garibaldi e da lì mossero in corteo verso il municipio. Giunti sotto il palazzo di città, una delegazione chiese di conferire con il sindaco dell’epoca, Tommaso Schiavoni Paganetti, il quale, rifiutando il dialogo con i lavoratori, si barricò all’interno del municipio, facendo chiudere dai messi comunali il portone d’ingresso.

I contadini, risentiti dall’atteggiamento del sindaco, si animarono, minacciando di sfondare il portone del palazzo. La protesta si protrasse fino al pomeriggio dello stesso giorno, quando i manifestanti si riunirono in piazza S. Angelo. Qui fu indetto un comizio, scandito dal grido “pane e lavoro”. Gli oratori, Ignazio Scalinci e Cosimo Palumbo, assicurarono gli astanti che quella stessa sera una rappresentanza di lavoratori si sarebbe recata dal sindaco per esporre le ragioni del loro dissenso.

In quel frangente comparve una colonna di mezzi della polizia, proveniente da Taranto. Una moltitudine di contadini, alla vista degli agenti, si scagliò contro di loro. Seguirono degli squilli di tromba che annunciavano la carica, e i celerini, al comando del commissario Calabrese, fecero esplodere dei colpi d’arma da fuoco in aria a scopo intimidatorio. I disordini cessarono con l’arresto in massa di contadini, molti dei quali risultarono in seguito estranei ai fatti. Gli agenti in trasferta, poiché permaneva lo stato di emergenza, si installarono per alcuni giorni nella caserma attigua alla chiesa di S. Maria e qui soggiornarono fino a che la situazione non si normalizzò. Furono deferiti all’autorità giudiziaria 69 dimostranti. Ben 41 furono indiziati per danneggiamento a edifici pubblici, oltraggio, violenza e resistenza a pubblico ufficiale, mentre i restanti furono prosciolti dalle accuse.

Al processo, celebrato il 12 gennaio del 1903 davanti al Tribunale di Taranto, diciotto imputati furono assolti e 23 furono condannati a pene variabili tra 40 giorni e 2 mesi di reclusione. Diversamente, e per fortuna senza gravi conseguenze, andarono i fatti accaduti il 3 giugno del 1925. Quella mattina i braccianti agricoli si riunirono in piazza Garibaldi per rivendicare l’assunzione al lavoro, la permanenza, il salario e l’orario giornaliero. Alle prime ore dell’alba, da via Schiavoni Carissimo, uscirono due traini del Sig. Tommaso Schiavoni Tafuri, che fendendo la folla si dirigevano in campagna per il lavoro giornaliero. Questa semplice circostanza fu interpretata dai contadini come una provocazione progettata dai loro datori di lavoro, e accese un astio profondo nei braccianti che sfociò in una manifestazione di piazza. Non mancarono scontri tra manifestanti e polizia. Le forze dell’ordine, per placare gli animi dei dimostranti, fecero rientrare i traini nelle rimesse da cui erano usciti. La protesta fu sedata non senza difficoltà e si concluse con il fermo di due agitatori, rilasciati poco dopo.

A distanza di anni, i problemi irrisolti determinarono ancora una volta disagio e rabbia tra i contadini manduriani. Una nuova protesta, questa volta molto violenta, fu promossa dai contadini nel 1960. Ad aggravare i problemi che già affliggevano i nostri agricoltori si mise anche la sorte. Quell’anno, le cattive condizioni atmosferiche e le eccezionali piogge che si abbatterono sulle nostre zone impedirono l’avvio dei lavori stagionali nelle campagne, a causa dell’allagamento dei terreni coltivati. L’amministrazione comunale, per fronteggiare la disoccupazione contadina, avviò diversi cantieri di lavoro in economia, utilizzando come manovali i braccianti rimasti inoperosi. Tuttavia, il provvedimento consentiva di assumere per 3.800 giornate lavorative solo una parte dei disoccupati. Nella seduta del 5 aprile del 1960, il consiglio comunale deliberò l’assunzione di 300 lavoratori. Questa decisione, che di fatto non garantiva il lavoro a tutti i braccianti, accrebbe il malcontento dei contadini, che manifestarono contro gli amministratori della città.

La protesta divampò. I braccianti, nell’intento di far valere le proprie ragioni, tentarono di penetrare nella sede del municipio, ma non vi riuscirono a causa dell’intervento delle forze dell’ordine, che nel frattempo avevano presidiato il palazzo di città. Nella tarda mattinata, giunse dal sindaco un segnale positivo. Egli assicurò, anche a nome del Prefetto, di aumentare il numero di lavoratori da occupare. Le promesse fatte, però, non bastarono a placare le reazioni dei manifestanti. Nel corso della serata dello stesso giorno, i braccianti riprovarono ripetutamente a invadere il municipio, ma furono nuovamente respinti dagli agenti. I fatti narrati non erano che un preludio a quanto sarebbe accaduto il giorno successivo.

La mattina del 6 aprile del 1960, Manduria fu scossa da alcuni episodi che, per la loro drammaticità, evidenziarono ancora una volta le condizioni di vita dei contadini, che, spinti da un esasperato bisogno, lottarono per rivendicare uno stato più dignitoso. Circa 2.000 braccianti si adunarono davanti al municipio e inscenarono una manifestazione di protesta. Esausti, rivendicavano la mancata corresponsione, da qualche mese ormai, degli assegni familiari e dell’indennità di disoccupazione. Un futile episodio fu la causa scatenante della rivolta. Per assicurare il transito di una corriera della Sud-Est che percorreva piazza Garibaldi, gli agenti aprirono un varco tra la folla. I manifestanti, indignati da tale gesto, divennero incontrollabili. Si munirono di tronchi d’albero asportati da un autocarro che in quel momento procedeva per via Sbavaglia. Così armati, si scagliarono contro le forze dell’ordine, caricandole violentemente. Durante gli scontri alcuni agenti rimasero gravemente feriti.

Il commissario Mazzano fu letteralmente circondato dai braccianti e fatto oggetto di calci, pugni e bastonate. Fu salvato solo dal provvidenziale intervento dei suoi agenti, che lo sottrassero alle grinfie dei più esagitati. Sempre più esaltati, alcuni braccianti decisero di occupare il municipio. Giunti sotto il palazzo di città, qualcuno lanciò dei sassi contro le finestre, frantumandone i vetri. In quel frangente era in corso nel gabinetto del sindaco una trattativa mirante a ottenere l’assunzione a rotazione di 1.784 lavoratori. L’amministrazione comunale, non potendo aderire pienamente alle richieste avanzate dai sindacalisti, garantì solo l’assunzione di 230 unità da impiegare nei lavori in economia. Frattanto, i manifestanti, ormai inarrestabili, si impossessarono di una lunga trave e con essa sfondarono il portone d’ingresso del municipio; invasero il palazzo di città e lo occuparono.

Provenienti da Taranto, giunsero altri agenti di rinforzo. Fu ordinato ai dimostranti rimasti in piazza di sciogliersi, ma l’ordine non fu eseguito. La situazione divenne incandescente, per cui fu disposta la carica e la polizia fece uso di bombe lacrimogene e sfollagente. Il bollettino degli scontri annoverò tra i feriti tre funzionari di polizia, 14 agenti e 13 carabinieri. Ottanta persone furono poste in stato di fermo dalla polizia, e tra questi 55 furono successivamente arrestate. Il processo si celebrò a giugno dello stesso anno. Dei 64 imputati coinvolti nei fatti del fatidico 6 aprile 1960, 33 furono assolti e 31 condannati a pene comprese tra 7 mesi e 1 anno e 5 mesi di reclusione.

Walter Pasanisi