Le tre sorelle.

Una povera donna, rimasta nella più squallida miseria dopo la morte del marito, conviveva con tre sue figliuole, tre vaghe fanciulle che tutto il giorno lavoravano di bianco, per guadagnare onestamente di che vivere.

Elle menavano vita ritiratissima, e nel villaggio godevano fama di onorate donnette.

Un giorno, era di carnevale, mentre che, seduta accanto al fuoco, tranquillamente lavoravano, secondo il consueto, dissero le figliuole alla madre:

–        Mamma, questi sono giorni di allegria per tutti. Orsù, facci tu stare allegre, e raccontaci qualche storiella de’ tuoi anni passati.

La povera donna, sorridendo mestamente, rifiutò di acconsentire al desiderio delle figliuole: come poteva essere lieta, se nel core perduravale ognora il dolore della vedovanza?

Frattanto erasi scatenato un violento uragano: la pioggia cadeva a catinelle, accompagnata da lampi e tuoni.

Allora la più grande delle sorelle disse:

–        Dirò io una cosa … dirò che cosa potrebbe rendermi felice …

–        Di’ pure, di’ pure, – esclamarono le altre.

E quella:

–        Per sentirmi felice, io dovrei subito maritarmi … e dovrei sposare il servitore del re!

Alla strana risposta, risero madre e figliuole.

E all’improvviso, poco dopo, disse la seconda:

–        Io pure ho il mio desiderio …

–        Sentiamo, sentiamo …

–        Ecco: per sentirmi felice nelle braccia di un uomo, costui dovrebbe essere un bel giovine: e un bel giovine pare agli occhi miei il cocchiere del re!

La più piccola, che non aveva, fino a quel momento, aperta la bocca, disse allora:

–        Sciocche, sciocche che siete; voi non sapete scegliere … che cosa potrebbero darvi un servo o un cocchiere? A stento potrebbero sfamarvi …Forse alla nostra bellezza non starebbero bene tutti gli abiti di seta e di velluto, che sono accolti nel palazzo del re? Forse non starebbero bene alla nostra gioventù e alla nostra grazia tutt’i gioielli che ammirano nelle vetrine delle stanze del re? Io dunque ho questo desiderio: se dovessi maritarmi, vorrei nelle mie braccia il re!

La madre e le due prime figliuole, a queste parole, rabbrividirono di orrore: che cosa aveva mai detto quella sciagurata? Se, per loro disgrazia, quelle parole potessero giungere alle orecchie del re, sarebbero rovinate: il re le farebbe certamente ammazzare.

E quelle parole furono davvero ascoltate da estranei: a causa del temporale, un servo del re erasi ricoverto sotto il davanzale della finestra delle tre fanciulle: egli tutto quel curioso dialogo riferì puntualmente al re.

Il re dapprima rise dello strano avvenimento; poi ordinò che fossero portate alla sua presenza le tre fanciulle.

Disse alla madre un araldo:

–        Sua maestà desidera conoscere e parlare con le vostre figliuole.

–        Oh, mio Dio, che cosa vorrà mai il re dalle mie povere figliuole – esclamò atterrita la povera donna, che col pensiero corse ai discorsi del giorno innanzi.

E soggiunse:

–        Le mie figliuole son pronte ad ubbidire ai cenni dek re; ma dite al re che elle non hanno abiti per uscire di casa.

L’araldo partì. Poco dopo tre servi portarono nella povera casa tre superbi abiti, uno bianco, uno verde, uno nero.

Le tre fanciulle li indossarono: la più piccole delle sorelle volle per sé l’abito nero, dicendo:

–        Il nero porta sventura; ma dalla sventura spesso gli uomini traggono insegnamento; io sarò sventurata, ma forse dopo sarò felice: date a me quest’abito.

Giunte alla presenza del re, le due prime sorelle si confusero, e tremavano; la terza, con molta indifferenza, sostenne lo sguardo del potente monarca.

–        Vi ho chiamate, – disse costui, – per sentirmi ripetere dalla vostra bocca i medesimi discorsi che faceste ieri, mentre imperversava l’uragano. Badate a non mentire: io castigo la menzogna con la morte!

E le due prime sorelle, tra il pianto e la confusione, ripeterono gli amorosi discorsi, il giorno innanzi tenuti.

Il re, alle loro parole, sorrise. E, chiamati dall’altra stanza il suo servo prediletto e il suo fido cocchiere, li presentò alle due donzelle dicendo:

–        Ecco i vostri sposi: siate felici!

Si rivolse poi alla più piccola delle sorelle, ch’era pure la più vaga e soave, un tipo stupendo di fanciulla della Magna Grecia, e disse:

–        E voi, quale desiderio avete voi?

–        Maestà, – rispose fieramente la fanciulla, – il mio desiderio nacque dalla passione; la mia passione non può mai ottenere il suo intento; perciò non dirovvi giammai nulla …

–        E voi – soggiunse adirato il re, – e voi negate ubbidienza alle mie domande?

–        Sì, maestà, perché il cuore non ha legge …

–        Ma io farovvi uccidere …

–        Uccidetemi pure. Dolce mi parrà la morte!

Il re si turbò …

Poi disse alle guardie:

–        Conducete costei nella più oscura prigione del castello.

E Vespa (così chiamavasi la strana fanciulla) fu avvinta di catene, e condotta in prigione.

Passò un anno.

Un giorno, all’improvviso appare a Vespa una vecchia cadente, da’ capelli arruffati e dallo sguardo losco. Alla brutta apparizione, volevasi ritirare in un angolo l’infelice fanciulla, quando ne fu trattenuta dalla vecchia, che dolcemente le disse:

–        Non temere, povera Vespa!

La dolcezza della voce contrastava con la bruttezza della persona: la fanciulla si rassicurò, e disse:

–        Chi sei tu, buona mamma?

–        Io sono una fata, – rispose costei, – e commossa dalla tua sorte, son venuta a salvarti. Ascoltami bene: domani il re partirà per una città lontana, ove passerà molti mesi. Noi dovremo trovarci in quella città prima del suo arrivo, in un ricco palazzo, ove egli chiederà asilo. Tu gli concederai l’ospitalità richiesta, a condizione che metà del palazzo lasci a tua discrezione. Il resto farò io. Vespa, son finiti i tuoi martiri. Hai sofferto sino ad ora, da ora comincia la tua felicità. Coraggio.

E sparì.

La fanciulla rimase stupita dalla meravigliosa visione. Non sapeva ella stessa se fosse un sogno o realtà ciò che erale avvenuto.

Per tutta notte non chiuse occhio. Alle dimane, prima che si levasse il sole, inteso uno scalpitio di cavalli, uno squillar di trombe insolito, un accorrere di servi, un movimento straordinario …

Il re partì.

Allora, all’improvviso, le apparve nuovamente la vecchia fata.

–        Ebbene? – richiese la donzella.

–        Per mio comando, – disse solennemente la vecchia, – si muti questa prigione in un ricco palazzo, nella città di X!

Il mutamento avvenne in un baleno.

Vespa si ritrovò in grandi sale, arredate con immenso sfarzo, alla presenza di dieci servitori, che timidamente aspettavano i suoi comandi.

E un gruppo di ancelle l’aiutò a vestire un magnifico abito di broccato, trapuntato di oro e di gemme; e un altro gruppo le profumò tutta la persona; e altre fanciulle le pettinarono le lunghe e morbide chiome; e altre le porsero fiori e anelli.

Più tardi, nella piazza della città, echeggiarono le grida del popolo festante: arriva il re.

Vespa si affacciò al balcone.

Passava allora il re, montato su un bianco cavallo, circondato da un nugolo di giovani ed eleganti cavalieri.

Il re levò gli occhi, e vide la bella fanciulla.

–        Costei rassomiglia a Vespa! – esclamò in cor suo.

E il pensiero di lei non gli si partì più dalla memoria.

–        Se volesse cedermi il suo palazzo, – si disse poi, – vi abiterei volentieri.

Al messo del re la fanciulla rispose:

–        Dite a Sua Maestà che egli può essere padrone di mezzo palazzo; l’altra metà serva a me.

Egli accettò.

E, da quella notte, dormì in sale attigue a quelle di Vespa.

Col tempo, il re innamorossi della donna. Le propose mille gioielli, mille ricchezze, mille titoli.

–        Maestà, – gli rispondeva la donna, – nel mio cuore non c’è amore per voi.

Egli n’era disperato.

Ma una notte, all’improvviso, penetrò a viva forza nelle stanze ove ella dormia, e la sedusse.

Dopo nove mesi, un bel bambino venne in luce: riflettea la fisionomia del re.

Ma il re doveva tornare alla capitale. Gravi affari di stato ve lo richiamavano.

Vespa pianse all’annunzio, temendo di essere abbandonata.

–        Non temere, – dissele egli, – non temere; tornerò subito, e saremo felici.

–        Fammi almeno una grazia, – implorò Vespa.

–        Comanda e otterrai tutto.

–        Lasciami, in pegno del tuo amore, tre oggetti: la tua corona, il tuo anello e il tuo ritratto.

–        Eccoli, – disse il re, e dal capo si staccò la corona, dal dito l’anello, dalla cintura il ritratto di oro.

E partì.

La vecchia fata apparve a Vespa.

–        Torniamo in prigione ora, – le disse, – perché ancora non è giunto il giorno della completa felicità.

Vespa si ritrovò nell’umida tana, nel sotterraneo del castello.

Giunto il re nella capitale, si ricordò di Vespa.

–        Voglio vedere se davvero ella somiglia all’amor mio, – disse fra sé.

E, accompagnato da alcune guardie, scese nella prigione.

–        Vespa, – disse, – persisti ancora a rifiutarmi obbedienza? Vuoi ancora mantenere il tuo segreto? Vuoi ancora tenermi celato il tuo desiderio?

–        No, – rispose la donna, – il mio desiderio è stato esaudito. Io volevo il re per marito, e infatti egli è stato mio, Ecco il figliuol suo. Io volevo la corona di regina, e infatti l’ho meco, datami dal re; ne volevo l’anello, ed è questo; ne volevo il ritratto, in cui bearmi nei dì di solitudine, ed ecco il ritratto del re!

Il re era sbalordito.

Poi sorrise.

E voltosi alle guardie, esclamò:

–        Si proclami pel regno tutto che il re ha preso moglie!