Li Trappitari.

Tuttora l’epiteto trappitaru esclude sostanzialmente l’offesa di «rozzo e incivile», riferendosi, il significato ingiurioso, soltanto all’aspetto esteriore, molto sporco e malmesso. Infatti, sebbene questi ciucci ti fatìa fossero indubbiamente rudi, tuttavia si dimostravano di modi insolitamente cordiali, forse perché «capuani», cioè provenienti dalla zona del Capo di Leuca (d’in tal lu Capu) in cui l’affidabilità dei rapporti umani è ancora oggi proverbiale. Con la prospettiva di un ben magro profitto, la jurma dei frantoiani, composta da tre-quattro operai e un ragazzino (turlicchiu), al comando di un capo (nachiru), lasciava borghi e famiglie e raggiungeva, per stabilirvisi, uno dei paesi del medio e dell’alto Salento, per i cinque-sei mesi previsti di attività olearia, durante i quali lu trappitaru fungeva, per loro, anche da vera e propria casa. Infatti solo saltuariamente ne uscivano, cercando, per di più, di non darlo a vedere (…) Le ore di riposo dei trappitari erano limitate a tre, quattro al massimo. Li trappitari si levavano dai giacigli – saccuni -, riempiti di paglia, che nei casi più fortunati erano sostenuti dai tavoloni su cavalletti (tristieddi) – e cominciavano subito la loro lunga giornata lavorativa (di diciotto ore!) Nel trappeto  il problema dell’igiene personale era quasi inesistente. Già nelle abitazioni private, e persino in quelle di un certo tono, i bagni costituivano una presenza eccezionale, e i servizi igienici non erano certo frequenti, sia per la mancanza di un articolato sistema fognario, sia per la difficoltà dell’approvvigionamento idrico, che è stato sempre un problema essenziale per la «siticulosa Apulia». Le fogge, buche di forma approssimativamente quadrata… scavate e coperte, costituivano dunque, i «servizi igienici» più diffusi. Ma il frantoiano non lasciava il tappeto per una necessità ritenuta così irrilevante e soddisfaceva ai suoi bisogni direttamente «in loco» lu capujentu serviva anche a questo!  Anche la questione della vera e propria pulizia personale non aveva ragione di essere. Lo sporco d’olio non poteva essere eliminato con facilità senza acqua calda né dalla persona, né dagli indumenti, e perciò finiva con l’irrancidirsi, ispessito, addosso al frantoiano che, dunque, emanava un tipico, sgradevole odore, per cui (…), lu trappitaru divenne ben presto sinonimo di lercio (…). Nel tappeto, quindi, all’incirca verso le otto di sera, si fermavano tutti gli «ordigni», si staccava l’animale dalla stanga per portarlo alla mangiatoia (dopo averlo liberato dalla benda sugli occhi) e la jurma si sedeva sugli sgabelli (tùturi e banchitieddi), intorno ad una rudimentale tavola  – bbanca – costituita da un asse di legno su cavalletti, oppure da una lastra di pietra su plinto, per dare fondo alla pignata colma e fumante ( generalmente si trattava di minestre di legumi, o di verdure o di patate) (…) E la giornata finiva così! Tra poche ore, il richiamo del nachiru: ´ncàpula! (metti il collare all’animale) avrebbe dato inizio ad un nuovo giorno.

Quaderno del ventennale”. 1972-1992, Liceo Scientifico Statale “Galileo Galilei” – Manduria – . G. Piccinni, Liberamente – Quindicinale di Informazione, Attualità e Cultura. Anno 3. N. 3.