Torchio alla Calabrese.
Il trappeto (da trappētum), che per i Romani era soltanto la macchina utilizzata per frangere le olive prima che venissero schiacciate dal “torcularum” (torchio), nella tradizione siciliana e salentina è invece il locale destinato al deposito, alla lavorazione delle olive e alla conservazione dell’olio. Varrone scrisse: “trapetum molare olearie“. Anticamente, le popolazioni messapiche che abitavano il Salento utilizzavano granai ipogei per conservare al meglio le derrate di grano. Nel IX secolo, i primi contatti con la cultura bizantina provocarono nel basso Salento una marcata trasformazione, passando dall’economia del grano a quella dell’ulivo e quindi dell’olio d’oliva.
Le grotte utilizzate per la realizzazione dei trappeti furono ricavate mediante la trasformazione dei granai d’età messapica e di cripte bizantine, che costituivano gran parte del sottosuolo dei centri storici. Molti dei granai vennero distrutti: oggi ne restano le sezioni orizzontali superiori con le pietre di chiusura originali. Questi frantoi vennero ricavati scavando la roccia o coperti da volte a botte. Furono realizzati nelle cavità sotterranee per due motivi: il primo riguardava la sostituzione dell’olio al grano come fonte principale di sostentamento per le popolazioni locali; il secondo era l’opportunità di conservare e favorire il rilascio dell’olio dalle olive in un ambiente caldo, proteggendolo dalle frequenti incursioni nemiche. Lo scavo nella roccia non richiedeva una manodopera specializzata.
Pianta frantoio ipogeo – vico Corcioli, Manduria. Sett. 1995.
I torchi servivano per spremere la pasta d’olive sui fiscoli, consentendo “all’ancilu” (olio buono) di depositarsi in un grande pozzo situato alla loro base, da cui veniva poi conservato in un grande recipiente detto “bottu“. “L’ancilu” veniva inizialmente posto nel “nappu“, dove si depositava la “sintina“, permettendo così la separazione dell’olio limpido. Il pozzo era circondato da piccole aperture nelle quali si versava acqua calda, che faceva salire l’olio in superficie, facilitando la raccolta da parte dei frantoiani e riducendo gli sprechi. La parte residua (“unfiernu“) veniva gettata in un altro pozzo apposito. La sentina era smaltita attraverso le fenditure naturali della roccia; emetteva un forte olezzo anche all’aperto e, soprattutto, sottoterra, dove il cattivo odore impregnava fortemente il locale.
Lo sporco d’olio non poteva essere eliminato facilmente senza acqua calda né dalla pelle né dagli indumenti; perciò, finiva per irrancidirsi addosso al frantoiano, che emanava un tipico odore sgradevole. “Lu trappitaru” divenne ben presto sinonimo di lercio. Tuttavia, fare “lu trappitaru” era considerato una fortuna: si lasciavano borghi e famiglie per stabilirsi in uno dei paesi del Salento durante i cinque o sei mesi dell’attività olearia, periodo in cui “lu trappitu” fungeva anche da casa.
Nel trappeto, il problema dell’igiene personale era quasi inesistente. Anche nelle abitazioni private, i bagni erano rari, sia per la mancanza di un sistema fognario, sia per le difficoltà di approvvigionamento idrico, sempre un problema per la regione. Le “fogge cu lu capujentu“, buche quadrate scavate e coperte, costituivano i “servizi igienici” più comuni. Altri vani del frantoio erano destinati a stalla, a cucina e a dormitorio degli operai. Privo di luce diretta, il trappeto era illuminato da lampade a olio: la luce e l’aria provenivano solo da uno o due fori al centro della volta del vano principale.
Nel frantoio ipogeo lavoravano squadre di operai, che si alternavano ogni 15 giorni. “Li trappitari” trasferisti tornavano a casa solo a Natale o a Capodanno, mentre i lavoratori locali rientravano il sabato sera per curare l’igiene e stare con i familiari. L’unica uscita consentita era quella per assistere alla messa. La sera prima della partenza si celebrava l’addio con una cena abbondante, durante la quale si gustava vino nero e cibi diversi dal consueto. A questa cena partecipavano anche il padrone del frantoio, i suoi parenti e qualche amico intimo.
Si dormiva nel frantoio su “saccuni” pieni di foglie di piselli o paglia, talvolta sollevati da tavoloni. La giornata lavorativa era molto lunga, durava diciotto ore. Si mangiava lì sotto, condividendo pentole comuni con legumi e verdure, come fave e cicorie o patate, portate dalle cucine dei proprietari o cotte su fuochi alimentati da sansa. Il pane fatto in casa accompagnava i pasti, e una specialità era la “minèstra ti li trappitari“, con fette di pane inzuppate nell’olio fresco e ricoperte di fave, alloro, pomodori, cipolla, aglio, sedano e prezzemolo. A volte venivano aggiunte cime di cavoli lessate.
Intorno alle otto di sera, gli “ordigni” venivano fermati e si staccava l’animale dalla stanga per portarlo alla mangiatoia. Gli asini o cavalli impiegati vivevano anche loro nel frantoio, un angolo adibito a stalla, dove compivano lunghi turni per girare la macina.
A partire dal XIX secolo, i frantoi ipogei vennero gradualmente sostituiti da quelli semi-ipogei e infine da strutture in elevato. L’olio d’oliva prodotto nel Settecento nel Sud Italia era di qualità scarsa; le olive venivano raccolte dal suolo, senza separarle dalle foglie, e conservate in vasche dove proseguiva la decomposizione. Tuttavia, l’olio lampante salentino per illuminazione, prodotto soprattutto a Gallipoli, era uno dei migliori in Europa e veniva quotato alla borsa di Londra. Prima della Seconda Guerra Mondiale, Manduria contava 12 frantoi in attività. Nel 1756, un censimento a Casalnuovo registrava 9 frantoi, saliti a 40 nel 1870, rendendo la città quarta in Italia per numero di opifici. Più della metà dei trappeti appartenevano ad enti ecclesiastici, il resto a privati. Il monastero delle Benedettine di Manduria era l’ente ecclesiastico che possedeva il maggior numero di alberi di ulivo: 4.920, più un trappeto. Michele Imperiali era il laico che possedeva il maggior numero di alberi d’ulivo 4.971 più un trappeto.
Notevole era il frantoio ipogeo di Santa Maria della Misericordia, accessibile attraverso una botola nella chiesetta omonima. Raffinato ma costoso, il frantoio lavega introdusse diverse innovazioni, ma non ebbe molta fortuna.
Bibliografia: A. Costantini, Quaderni Archeo N.1, marzo 1996. M.T. Varron, Rerum Rusticarum- Libri III. Sevilla 2010. J. A. Ferraris, Apologia paradossica della città di Lecce. C.U. De Salis Marschlins Viaggio nel Regno di Napoli Carlo. 1979 Capone Libro. G. Piccinni, Liberamente – Quindicinale di Informazione, Attualità e Cultura. Anno III. N. 3. P. Scarciglia, Avetrana, Storia e Territorio Ed. Del Grifo, Lecce. 1998. L. Tarentini, Manduria Sacra. E. Dimitri, Monastero delle Benedettine nella storia di Manduria, CRSEC TA/55. 1992. Varie testimonianze orali.