Tarantolismo: tra superstizione, rito e cultura contadina.

Il tarantolismo o tarantismo, uno dei fenomeni più appariscenti e studiati del mondo contadino, è stato anche uno dei più sofferti per la popolazione salentina. Ormai sostanzialmente scomparso dalle nostre comunità, a eccezione della rituale visita alla cappella di San Paolo a Galatina il 29 giugno, fino a pochi decenni fa questo fenomeno influenzava la vita quotidiana di molti e lasciava un’impronta profonda nella cultura locale. Pur essendo un rito connesso alla sfera rurale, caratterizzato da credenze, rituali e comportamenti legati alla vita nei campi e al ciclo delle stagioni, il tarantismo è rimasto ambiguo tra superstizione, tradizione e bisogno di sfogo sociale. La sua danza istintiva e irrefrenabile esprimeva un moto di ribellione alla norma sociale, simbolo di una liberazione rituale. Il cristianesimo lo assimilò e reinterpretò, adattandolo alla propria visione spirituale. Secondo la credenza popolare, l’insetto noto come “ragano” – termine volgare per il Latrodectus tredecimguttatus – causava, con il proprio morso, il cosiddetto “tarantismo”. Il disagio psicofisico legato a diverse fasi della vita, specialmente alla pubertà, e la difficoltà quotidiana di molte persone nel vivere la loro condizione, venivano a lungo attribuiti al morso della tarantola. Si credeva che questo evento scatenasse una sorta di patologia, con sintomi che ricordavano l’epilessia e uno stato di profondo malessere. La credenza popolare sosteneva che si potesse neutralizzare il veleno tramite una danza intensa e purificante, fatta di salti e movimenti frenetici, credenza da cui nasce l’idea che la danza stessa – la “pizzica” – potesse guarire. Sicuramente, l’effetto della musica, dei colori e dei balli permetteva agli individui di esprimere e trasformare il loro disagio in un rituale collettivo, in una catarsi protetta dall’aura religiosa. Le comunità contadine tarantine, come Manduria, Grottaglie e Lizzano, erano altrettanto coinvolte in questo antico rituale. La connessione tra “tarantismo” e “taranta” sembra ancor più evidente se si considera che i nomi stessi portano il prefisso “tar”, segno di un legame non solo etimologico, ma anche simbolico e culturale. Emblematico è l’esempio di Athanasius Kircher, che, rifacendosi alla tradizione orale, attribuiva il nome “tarantola” al fiume Taro (Tara), dove era comune imbattersi in questi ragni, il cui morso si riteneva particolarmente pericoloso. Inoltre, il legame etimologico tra la città di Taranto e la figura mitologica di Tara, figlio di Nettuno e fondatore della città, approfondisce il radicamento del tarantismo in questa terra. Studi come quelli di Roberto Nistri, che ha esplorato i legami etimologici con il sanscrito, il greco e la tradizione celtica, nonché le ricerche di Antonio Basile e Carmelina Naselli, rendono plausibile l’ipotesi che il tarantismo sia radicato anche nell’area tarantina. Esistono diverse specie di ragni tarantola, di colori differenti, e il tarantismo veniva distinto in due tipi: “umido” e “secco”. Le donne, lavorando nei campi di grano, erano particolarmente esposte ai morsi per via degli abiti leggeri indossati sotto il sole cocente. Quando venivano morse, il disturbo si manifestava con febbre alta e movimenti convulsi. Si chiamavano allora i musicisti e, se la musica iniziale non incontrava il gradimento della tarantata, che si dimenava con maggior vigore, essi cambiavano melodia finché la donna trovava il ritmo giusto per esprimersi, gettandosi così in una danza frenetica e liberatoria. Nel tarantismo “umido”, la danzatrice si purificava simbolicamente dalle proprie pulsioni, rinascendo rigenerata. Così, tra mito e rito, si dispiegava un’antica forma di catarsi collettiva, dove la musica e il movimento restituivano, per un attimo, pace all’animo e al corpo. Il tarantismo, oggi rivisitato nelle esibizioni di “pizzica” e celebrato come patrimonio culturale, rappresenta una testimonianza viva della resilienza e della creatività delle comunità contadine, capaci di trasformare il dolore in danza, la sofferenza in rito, e il disagio in espressione artistica condivisa.

Malinconicu cantu, e allegra mai / Cacciati fora sti malincunii. / Comu l’aggiu a cacciari, quannu tu sai? / Aia nu cori e lu donai a tei.

Bibliografia: E. De Martino, La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud. Einaudi Editore.  E. Dimitri, testimonianza verbale, anno 1996.Carlo Petrone, Il morso della taranta. A Taranto e dintorni. (Laterza, 2013). P. Bourget, Sensations d’Italie. 1890. Gioconda Miseria. Il tarantismo a Taranto. XVI-XX secolo. C. Naselli, L’etimologia di “tarantella”, in “Archivio Storico Pugliese”, anno IV (1951). J. Ross, La Puglia nell’Ottocento (La terra di Manfredi) – Capone Editore. G. Gigli, Canto popolare in dialetto manduriano.