Il Ritorno dei Morti: Credenze e Riti Funebri nel Salento.

Nelle credenze del popolo salentino, si pensava che i morti potessero ritornare alla “vita”. Si raccontavano infatti strani episodi legati agli ánimi, spiriti inquieti che apparivano in sogno per annunciare la morte di qualcuno, ti malómbri, ombre cattive che incutevano timore nei più suggestionabili. Secondo le credenze popolari, i morti ritornavano sotto forma di uccelli neri, spettri, farfalle notturne, serpenti, gatti o pescecani, in un’atmosfera lugubre accompagnata da tuoni, lampi, neve o seguiti dal lugubre canto ti l’aciéddu ti la morti, la civetta, quando si posava sulla finestra di una casa o nelle sue vicinanze. I riti funebri servivano sia a scongiurare il ritorno dei morti tra i vivi, sia a compensare l’angoscia della separazione, permettendo ai defunti di continuare a proteggere i loro cari.

La morte era spesso inevitabile, poiché in passato non esistevano ritrovati farmacologici, i medici erano rari e praticavano una medicina rudimentale.

La notizia della morte si diffondeva rapidamente nel paese; parenti e amici venivano avvertiti anche se il decesso avveniva di notte. Se il moribondo spirava prima delle tre del pomeriggio, si suonavano le campane a martello (spirazióni); se moriva dopo le tre, le campane venivano suonate all’alba.

La camera ardente veniva allestita coprendo mobili e specchi; inoltre, non si spazzava il pavimento per evitare di dare l’impressione di voler scacciare il defunto dalla casa. Era consuetudine tenere porte e finestre aperte, anche di notte, per permettere all’anima di entrare e uscire o per consentire ad altre anime di entrare in casa e portarlo via con loro.

Le donne erano particolarmente esposte alla morte in giovane età, soprattutto a causa della tisi e delle complicazioni legate al parto, così come molti bambini, che morivano nei primi mesi di vita a causa della  nnicatédda, una tosse convulsa particolarmente intensa che danneggiava i polmoni. Tuttavia, queste povere creature perivano anche per denutrizione, meningiti, enteriti, malaria, tifo e morbillo.

A Manduria quando moriva un bambino, il corteo funebre era accompagnato da una piccola orchestra composta da un flautista, un violinista e un suonatore di trombone, che intonavano allegri balletti per celebrare l’ascesa del piccolo defunto.

Era usanza mettere in mano ai maschietti defunti un giglio e adornare il capo delle femminucce decedute con una corona di fiori d’arancio artificiali, preparata dalle donne specializzate in questa manifattura, le Méštri Corirússi ti sotta la Strata Longa, sarte molto conosciute a Manduria negli anni Trenta.

Durante la veglia funebre, per rispetto al defunto, si evitava di cucinare e si mangiava poco, seguendo la tradizione espressa dal detto štai ancóra sobbra la terra.

Si era soliti dotare i defunti degli oggetti personali che avevano usato in vita—cappello, bastone, occhiali, vestiti—per completare il rituale di separazione dal mondo dei vivi ed evitare che la loro anima tornasse indietro. Se qualcosa mancava nel corredo funebre, il defunto poteva richiederlo in sogno ai familiari, considerato un luogo privilegiato di comunicazione tra morti e vivi.

Dopo il funerale, amici e parenti non consanguinei provvedevano a ristorare i familiari del defunto con lu cunsulu, il pranzo consolatorio, che per la prima sera consisteva in un brodo arricchito con formaggio grattugiato e uova sbattute. Nei giorni successivi, il pranzo consolatorio prevedeva pasta con sugo di carne, polpette, agnello arrosto, pane, lu barrúffu o trúfulu (un recipiente pieno di vino Primitivo) e sobbratáula (sedano, insalata, finocchio e frutta secca).

Il giorno dopo i funerali si imbiancavano le pareti e si bruciavano gli indumenti usati dal defunto. Per la morte di genitori, figli o fratelli, le donne portavano il lutto per tre anni, mentre per i figli morti in tenera età (fino a sei anni) non vestivano di nero, poiché considerati angeli. Per cognati e suoceri il lutto durava sei mesi, ma in alcuni casi veniva portato per tutta la vita, specialmente quando la morte colpiva ripetutamente la famiglia, fino a consumare gli abiti neri. Anche le bambine rimaste orfane di madre venivano vestite di nero.

Gli uomini, indossavano una cravatta nera, un bottone nero applicato al collo della giacca, una fascia nera al braccio e spesso anche una camicia nera a mezza manica, lu pittínu neru. Era usanza far portare il lutto anche agli animali: al cavallo venivano legati nastri neri ai finimenti e alla criniera, mentre al cane si applicavano nastrini neri al collo.

Dopo otto giorni si celebrava una messa in memoria del defunto, i familiari tornavano al lavoro abituale e gli uomini si radevano la barba, trascurata in segno di dolore. Le donne rimaste sole in casa, di tanto in tanto, si abbandonavano a un pianto liberatorio (si facíunu na sciónta, na štózza ti chiántu). Anche loro, così come gli uomini in lutto, dopo otto giorni, se rimaste vedove o bisognose, potevano tornare a lavorare.

I riti funebri servivano sia a scongiurare il ritorno dei morti tra i vivi, sia a compensare l’angoscia della separazione, permettendo ai defunti di continuare a proteggere i loro cari.

Bibliografia: R. Jurlaro, La festa cresta. Dalle Palme al Sabato Santo con la gente del Sud, Ravenna, Longo, 1983. L. Faranda, Le tradizioni popolari in Puglia, Roma, Antrhopos, 1982. Ist. Tec. “L. Einaudi” Manduria, La Donna ieri e oggi il vissuto nelle immagini (1880-1945). Progetto giovani 2000- A.S. 1995-1996.